LO SCENARIO
Mentre gli Stati Uniti mostrano una tenuta dell’attività, l’Area Euro è scivolata in una fase di stagnazione: dopo la frenata italiana nel secondo trimestre e con la Germania in difficoltà, l’Area Euro ha, infatti, registrato una variazione dell’attività appena positiva nella prima metà dell’anno. Gli indicatori congiunturali legati alle aspettative e alla fiducia degli operatori sono scesi negli ultimi mesi, sia nel settore manifatturiero sia nei servizi. Questo contrasta con la situazione americana, che evidenzia una crescita ancora su buoni livelli, sebbene non sufficienti a trascinare l’economia mondiale.
Allo stesso tempo, l’inflazione rimane più elevata nell’Area Euro: ad agosto l’inflazione totale (headline) è risultata superiore a quella americana (5,2% contro il 3,7%), mentre la differenza è più contenuta per quella core. La più alta inflazione dell’Eurozona si spiega solo in parte con l’impatto più elevato dello shock energetico. In base ad alcune recenti analisi, risulta che le imprese hanno saputo difendere il valore reale dei loro profitti, mentre i salari unitari hanno visto una forte riduzione in termini reali. Il fatto che i salari reali nell’Area Euro siano diminuiti più che negli Stati Uniti contribuisce a spiegarne anche la maggiore debolezza dei consumi.
Nell’Eurozona, inoltre, resta aperta la situazione di potenziale tensione sui rinnovi contrattuali. Nel secondo trimestre dell’anno, le retribuzioni nell’Area Euro sono salite del 4,5%. Storicamente la crescita delle retribuzioni segue i fenomeni inflazionistici e non ne costituisce il fattore scatenante. Tuttavia, in un contesto di mercato del lavoro che mostra capacità di tenuta e di disoccupazione a livelli storicamente bassi, le tensioni salariali potrebbero aumentare. Non sorprende, quindi, la recente decisione di BCE di aumentare ulteriormente i tassi di 25 punti base a settembre.
Alcuni commentatori stanno parlando di “stagflazione” per segnalare la presenza di inflazione elevata e crescita debole. In realtà, l’impatto dello shock energetico sul tasso di inflazione è in gran parte rientrato. L’aumento nei prossimi mesi sarà legato principalmente all’andamento dei salari. Il basso livello di disoccupazione riflette, con un certo ritardo, la forte ripresa post-Covid e non deve essere considerato un segnale di salute prospettica dell’economia. Il rallentamento dell’attività a cui stiamo assistendo non potrà che riflettersi anche sui dati occupazionali. In ogni caso non ci si attende un forte aumento della disoccupazione, dato che il calo in atto della popolazione in età da lavoro, soprattutto in paesi a forte invecchiamento, pone vincoli all’offerta.
Le difficoltà cinesi, soprattutto quelle legate al settore immobiliare, limitano fortemente la crescita e mettono a rischio la stabilità finanziaria. Anche in scenari in cui le autorità riescano a gestire le difficoltà senza crisi, il forte contributo al commercio mondiale e alla crescita globale giocato dalla Cina negli ultimi decenni sembra essersi annullato.
Altro fattore di debolezza per la crescita globale è il venire meno nei principali paesi del supporto alle politiche fiscali, dopo i forti stimoli del periodo Covid. Tuttavia, i principali istituti di previsione sono concordi nel ritenere che Eurozona e Stati Uniti rallenteranno significativamente verso livelli poco al di sotto delle rispettive crescite potenziali, evitando una recessione, in quanto il buon andamento dell’occupazione si rifletterà in una tenuta dei redditi disponibili delle famiglie e, dunque, dei consumi, anche se con differenze tra i paesi.
Il Italia, dopo tre anni di rimbalzi post-Covid, sostenuti da misure fiscali e monetarie senza precedenti, e da un boom del settore delle costruzioni, ci avviamo verso una crescita bassa se non stagnante. Il buon andamento del primo trimestre aveva diffuso ottimismo, ma la manifattura è ferma in un contesto di rallentamento globale, mentre i servizi ancora tengono, soprattutto quelli legati al boom immobiliare che si sta sgonfiando. È positivo che ci si trovi in presenza di vari elementi che dovrebbero consentirci di evitare una recessione, come i risparmi accumulati durante il periodo Covid, nonostante il PIL già nel secondo trimestre abbia mostrato la debolezza del nostro modello di crescita.
Il forte rallentamento della crescita mette in discussione l’approccio di politica economica degli ultimi anni, in cui il bilancio pubblico pareva non avere vincoli. Nel 2022, il deficit dovuto al Superbonus 110% e agli interventi per mitigare gli alti prezzi dell’energia è stato superiore al 6% del PIL. Nel corso del 2023 si prevede che sarà circa il 2,8% e scenderà quasi a zero nel 2024. La revisione della crescita, che segue il risultato del secondo trimestre, rende difficilmente raggiungibili gli obiettivi di crescita e di indebitamento del governo indicati nel Documento di Economia e Finanza (DEF) dello scorso aprile. Viste le risorse che il governo ha deciso di stanziare per il taglio del cuneo fiscale e per la riforma delle aliquote Irpef, alle quali si aggiungeranno altre spese indifferibili, ci sia avvia verso una manovra di bilancio che supererà l’obiettivo di disavanzo per l’anno prossimo indicato nel DEF.
L’indagine congiunturale, realizzata a settembre tra le aziende del sistema confindustriale piemontese, raccoglie le valutazioni di quasi 1.200 imprese manifatturiere e dei servizi. I dati raccolti confermano il quadro di raffreddamento del clima di fiducia già iniziato a giugno, con indicatori in regresso per produzione, ordini ed export. Tuttavia, non siamo in presenza di segnali particolarmente critici, anticipatori di una vera e propria svolta recessiva. Ne sono conferma alcuni dati importanti come la tenuta dell’occupazione e degli investimenti (per quanto non particolarmente brillanti), la stabilità degli indicatori finanziari (ritardi negli incassi e tempi di pagamento), l’elevato tasso di utilizzo degli impianti (vicino all’80% anche nell’industria), il modesto ricorso alla CIG a livello complessivo, anche se in lieve aumento rispetto a giugno. Viceversa, in negativo va segnalata la marcata accelerazione dei prezzi (materie prime, energia e trasporti). Si conferma la divergenza tra manifattura e servizi. Il peggioramento degli indicatori è più sensibile per i servizi (circa 10 punti in meno da giugno), ma i saldi restano, comunque, positivi (la maggioranza delle imprese prevede perciò un aumento di produzione e ordini). Nell’industria, invece, i saldi su produzione e ordini peggiorano di qualche punto attestandosi poco al di sotto del valore di equilibrio tra previsioni di aumento e riduzione. Il ricorso alla CIG sale di qualche punto, ma resta comunque su livelli molto contenuti.
Sulla scia di quanto si verifica a livello piemontese, le circa 270 imprese associate a Confindustria Cuneo che hanno preso parte all’indagine di previsione per il quarto trimestre 2023 esprimono valutazioni più caute rispetto alla scorsa rilevazione. Il clima di fiducia risulta ancora favorevole, sebbene alcuni indicatori, come livelli di attività, ordini totali ed export, registrino decisi segnali di frenata sia nel manifatturiero che nei servizi. I comparti manifatturieri registrano una nuova battuta d’arresto dopo quella di giugno, sebbene su saldi, tolta qualche eccezione, in generale ancora positivi e dati a consuntivo in tenuta. In particolare, i saldi ottimisti-pessimisti su produzione e ordini totali cedono circa 6-7 punti percentuali, attestandosi comunque, rispettivamente, a 5,1% e 2,2%. Tornano negative, invece, le valutazioni sulle vendite all’estero, mentre si mantengono elevate le attese sull’occupazione. Si mostra sempre elevato il tasso di utilizzo delle risorse (77,6%) a fronte di una sostanziale stabilità nella propensione ad investire che interessa un quarto delle aziende intervistate. Sale di 2,6 punti il ricorso alla CIG, mantenendosi comunque ad un livello ancora contenuto (10,2%).
Nei servizi il clima di opinione frena in modo più marcato rispetto alla manifattura, fatta eccezione per il saldo sugli ordini export che recupera oltre 4 punti. Il deterioramento del clima di fiducia è particolarmente visibile nella diminuzione della propensione ad investire (dal 23,3% al 15,5% delle aziende), ma restano solidi gli indicatori finanziari. Ancora in crescita il tasso di utilizzo delle risorse.
Cliccando su questo link potete trovare il dettaglio dei dati, settore per settore: Analisi congiunturale di previsione quarto trimestre 2023
Fonte e riferimenti
Elena Angaramo
Responsabile Centro Studi
Confindustria Cuneo – Unione Industriale della Provincia
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