Con piacere condividiamo l’articolo di di Riccardo Maggiolo pubblicato sulle pagine dell’HUFFPOST
I manager dovrebbero chiedere più risorse per occuparsi delle persone e meno dei documenti. Perché in fondo lavorare bene vuol dire anche vivere bene
Il 1° maggio è tradizionalmente la festa più di sinistra e forse anche più popolare – nel senso letterale del termine – del nostro calendario. La sua lunga storia e il suo carattere internazionale evocano un immaginario fatto di folti cortei punteggiati da bandiere rosse e animati da uomini e donne in tute da lavoro, con le mani gonfie di calli e gli sguardi fieri. Sicuramente il primo maggio è stato tutto questo, ma lo è ancora? E forse soprattutto, ha ancora senso che lo sia?
Da oramai diverso tempo il 1° maggio più che una vera festa dei lavoratori sembra essere diventato un rituale stanco; un’occasione che va onorata più per tradizione che per senso d’urgenza, e che si aggancia ostinatamente a riti che sanno ogni anno sempre più di vecchio – anche il “concertone”, supremo tentativo di rendere pop quella che dovrebbe essere una manifestazione di rivendicazione politica e sindacale, provoca oramai più sbadigli che attenzioni.
Da dove viene questo declino? D’altronde, il tema del lavoro rimane urgente e pressoché universale: tutti o quasi in qualche modo devono lavorare, e temi come i salari stagnanti o la sicurezza sul lavoro impongono attenzione sia attraverso puntuali casi drammatici sia per la loro ricaduta estremamente concreta nella vita di milioni di persone. E allora perché il lavoro interessa tutti ma non sembra più appassionare nessuno? Perché non riesce più a essere un tema popolare?
Forse la risposta è che il lavoro non è più un tema di lotta, ma di ordine; non una leva per cambiare le cose, ma il perno attorno a cui si incardina la nostra quotidianità. Il 1° maggio è da sempre un’occasione per richiedere maggiori tutele e diritti per i lavoratori più deboli. Solo che oggi queste persone sono spesso così ai margini della società, così lontane da ogni forma di tutela e di sindacalizzazione, da non poter sperare di ottenere qualche tipo di concreto beneficio da manifestazioni come quella di oggi. Per fare solo l’esempio più evidente, anche nella fantasiosa ipotesi che grazie a grandi e partecipate manifestazioni si ottenesse un salario minimo, questo non darebbe alcun beneficio a tutti quei lavoratori in nero e impegnati in attività informali che affollano il nostro Paese, e ne fornirebbero pochi ai tanti che lavorano in maniera discontinua o per poche ore la settimana (almeno formalmente). Anzi, la misura rischierebbe persino di aumentare le persone senza alcuna tutela, dal momento che diventerebbero ancora più economicamente convenienti rispetto ai lavoratori regolari.
C’è poi da dire che sotto diversi aspetti il contesto è anche cambiato in meglio. Negli ultimi cinquant’anni le condizioni della classe operaia sono sensibilmente migliorate. Oggi chi lavora in fabbrica spesso gode di condizioni di sicurezza e di remunerazione assai migliori di quelle che vivevano gli operai degli anni ’60 e ’70. Questo, unito al fatto che molti di quei manifestanti oggi sono felicemente in pensione, ha tolto spinta e rappresentanza al sindacato e al movimento per i lavoratori.
Insomma, il problema oggi non è tanto che il lavoro è povero e bistrattato, ma che è polarizzato e in un certo senso sacralizzato: messo su un podio da tutti ma allo stesso tempo pressoché intoccabile per chiunque. Come si può fare, allora, per riportare in auge il tema del lavoro? Forse cambiando completamente il gioco.
Forse quello che va riconosciuto è che oggi la sofferenza più diffusa rispetto al lavoro non è quella legata alle sue condizioni o remunerazioni, ma al suo senso. La nostra società non è più fatta prevalentemente da operai e artigiani alle prese con mezzi e macchinari, ma da impiegati e assistenti alle prese con numeri e parole. In un senso ampio, siamo una società di manager: di persone che gestiscono più che produrre; che trasformano e mettono in circolo il valore più che crearlo.
Questo sposta il centro del problema dalle condizioni fisiche a quelle psicologiche, e da quelle materiali a quelle esistenziali. Non ci credete? Solo la settimana scorsa l’annuale rapporto “State of Global Workplace” di Gallup ha certificato che ben un lavoratore su quattro in Italia è così insoddisfatto da sabotare il lavoro proprio e degli altri. Il 49% degli oltre mille lavoratori italiani intervistati ha detto di essersi sentito “stressato” al lavoro il giorno precedente, e il 21% “triste”: due percentuali che ci collocano entrambe al 5° posto della classifica europea, nel continente in cui queste percentuali sono le più alte al mondo.
Sono numeri impressionanti ma perlopiù silenziosi. Facilmente vengono seppelliti dai drammatici casi di incidenti mortali sul lavoro o di sfruttamento anche estremo dei lavoratori. Ripetiamolo: il punto non è che questi temi non siano importanti o che non vadano affrontati ma che, per quanto drammatici e urgenti, non vengono più sentiti dalla maggioranza delle persone come qualcosa che li riguarda direttamente.
Piuttosto, dovrebbe far riflettere quanta presa ha avuto e ancora ha il tema dello smart-working. Pur essendo una fattispecie che coinvolge o può coinvolgere una fetta molto piccola di lavoratori, è spesso il primo tema di rivendicazione nei colloqui di lavoro e per molti – specie tra i giovani – sembra sia diventata quasi una bandiera. Perché?
Il sospetto è che più che ridurre notevolmente i trasporti lo smart-working promette di tagliare il lavoro inutile: quel teatro aziendale fatto di riunioni e documenti che producono ben poco se non il reiterarsi di strutture di potere e di un lavorio pigro intento più che altro a giustificare sé stesso. Insomma, più che manifestare per migliorare le condizioni del lavoro oggi forse si dovrebbe avviare una grande discussione sul senso del lavoro. E dovrebbero iniziarla soprattutto i manager: quelle persone che per lavoro gestiscono persone e che secondo sempre Gallup sono coloro che soffrono sempre più la loro condizione schiacciata tra dirigenti sempre più esigenti e distanti e collaboratori sempre più insoddisfatti e passivi.
I manager – anche intesi in senso molto ampio, come detto prima – dovrebbero chiedere più risorse per occuparsi delle persone e meno dei documenti: più formazione da fare e meno report da compilare; più tempo e modo per ascoltare le persone e meno per dirgli cosa fare; più possibilità di cambiare le proprie mansioni e competenze e meno carriere verticali che diventano tunnel in cui si può solo andare avanti per inerzia.
I vantaggi, se dovessero ottenere tutto questo, sarebbero enormi. Per gli imprenditori, che oggi pagano costi enormi (ma, anche qui, poco visibili) per via della mancata produttività; e per i lavoratori in generale, i quali indicano sempre più spesso proprio i loro capi e colleghi come prima causa dell’insoddisfazione al lavoro. E poi, per la società tutta. Perché in fondo lavorare bene vuol dire anche vivere bene.
[Fonte – HUFFPOST a cura di Riccardo Maggiolo ]